Pubblichiamo il primo di 3 pezzi sul tema del community management nei processi di innovazione aperta. L’assunto di base è che serve passare da un approccio per competenze volto a definire profilo e ruolo del community manager ad un approccio per pratiche indirizzato all’apprendimento in corso d’opera e alle capacità di mettere in campo determinati saperi di volta in volta. In questo primo pezzo spiegheremo perché è necessario questo passaggio, nel secondo racconteremo alcune storie di community management e nel terzo cercheremo di porre nuove domande di ricerca rispetto al tema e rispetto al design organizzativo.
Nel mondo del welfare, e non solo, stanno nascendo nuove figure organizzative e professionali ibride – custodi sociali, welfare community manager, community organizer, local coach – che contribuiscono da un lato a ridefinire i diversi approcci allo “sviluppo di comunità e del territorio”, e dall’altro hanno a che fare con il complesso tema della leadership nelle imprese sociali, da cui provengono, e nei territori, in cui operano interagendo con altri leader locali, e nei processi di open innovation, che richiedono di ripensare i modelli organizzativi.
Tratto peculiare di queste nuove figure sta nell’essere inserite in quelle che possiamo definire learning organization, ossia organizzazioni che fanno della creazione e condivisione di conoscenza il proprio fattore di vantaggio comparato, facendo leva sulle motivazioni, estrinseche ed intrinseche di tutti i soggetti che operano nelle imprese sociali.
Cosa serve per fare un Community Hub? Vieni a scoprirlo venerdì 25 gennaio a LaClaque, a Genova, per la terza tappa del nostro progetto di co-scrittura partecipata “Nube di Parole”.
È infatti nella compresenza armoniosa di relazioni cooperative e competitive tra gli stessi lavoratori, oltre che tra lavoratori e impresa, che si rende sostenibile e “diversa” l’organizzazione e la valorizzazione di quelle “risorse tacite” che costituiscono uno degli asset strategici per tutte quelle imprese che perseguono finalità pubbliche attraverso modelli imprenditoriali.
Affinché venga garantita la sostenibilità di imprese orientate a generare valore attraverso processi di “community building” e “community organizing”, è indispensabile dar vita ad un’identità organizzativa comune, fondata sulla condivisione dei fini, in grado di bilanciare la combinazione delle diverse «logiche e motivazioni» esistenti al proprio interno [Battilana e Dorado 2010; Pache e Santos 2011].
Tale identità serve a prevenire la formazione di ulteriori sub-identità o derive burocratiche all’interno dell’organizzazione che, qualora dovessero emergere, potrebbero generare tensioni tra le diverse culture mettendo a rischio quell’alchimia virtuosa che può nascere dalla diversità degli approcci: avere a che fare con una molteplicità di stimoli e risorse è perciò una sfida da un punto di vista organizzativo di cui bisogna essere consapevoli, affinché non si inneschi poi quell’avversione al cambiamento che è spesso all’origine dei fallimenti nei processi d’innovazione organizzativa.
Si tratta di una sfida particolarmente stringente per le organizzazioni “community-oriented” che, costituendo soggetti organizzativi nuovi, non possono contare su un modello pregresso o archetipico di gestione tra le diverse logiche che si attivano. L’esito di questa complessità richiede la definizione di una strategia che prima di entrare nelle “fasi di esecuzione” o di “engagement” si deve misurare con le aspirazioni e le culture alla base dell’organizzazione e con i modelli di leadership che influenzano e governano i processi.
Questo è il motivo per cui le imprese sociali, ma anche le amministrazioni pubbliche, oggi, si pongono il problema di definire il ruolo dei community manager (capire cosa dovrebbero fare e come dovrebbero agire) e di progettare le loro competenze per selezionarli e/o formarli – manifestando così, spesso, il riferimento ad un paradigma organizzativo tradizionale, che pensa alla figura professionale come interna e come delimitata da ruoli e competenze previste ex ante. Si tratta però di un punto di vista che fa problema per un ruolo che di fatto costituisce una sfida aperta: quella di dover agire fra il dentro e il fuori dell’organizzazione per promuovere forme collaborative di innovazione e di ingaggio con le comunità (al plurale). È quindi già difficile immaginare se il community manager debba essere un membro interno o un membro esterno dell’organizzazione. Il community manager (CM) agisce in un ambito “nuovo” e “mobile” per definizione, poiché il suo compito è direttamente connesso alla promozione del cambiamento e dell’innovazione. Per questo motivo, ci sembra utile fare il punto della situazione: innanzitutto osservando come viene praticato questo ruolo e che tipo di impatto ha; in secondo luogo, riflettendo su un approccio diverso di formazione, più indirizzato all’apprendimento in corso d’opera e a partire dalle pratiche che di volta in volta richiedono certi saperi e propongono certe interazioni, più che dalla predisposizione di profili di competenze.
Spesso a queste nuove figure viene richiesto di agire sempre più spesso “sotto copertura” rispetto all’esercizio del proprio ruolo e con una legittimazione non formalizzata ex ante ma che scaturisce piuttosto dall’impatto generato [Walker-Soul, 2017, Zandonai, 2017]. Al di là delle tipologie di leadership praticabili (diffusa/gerarchica, transazionale/trasformativa, etc.), degli stili e delle competenze attribuibili al ruolo di leader (soft skills/hard skills/smart skills) attraverso cui si può tentare di inquadrarli come figure “professionali” o “ruoli organizzativi”, tali soggetti diventano, nelle pratiche, esploratori e rilevatori di nuovi bisogni ed aspirazioni,costruttori di nuove relazioni, attivatori di processi e di progetti, nonché progettisti loro stessi ma in forme collaborative che scardinano quelle tradizionali del progetto d’area.
Data la sua posizione (dentro/fuori) e i suoi compiti, il community manager non agisce da leader nel senso più noto del termine (avere seguaci, guidare un gruppo, contare sul carisma, proporre visioni proprie, possedere autorità in modo esclusivo), ma si fonda su capacità di leadership, analizzabili sotto due aspetti nuovi. Il primo, è l’aspetto dell’apprendimento, ovvero la capacità del leader di trasformarsi per trasformare il contesto, imparando di volta in volta dai processi ciò che è più utile ed opportuno [Wildavsky 2008]. Il secondo, è la capacità di promuovere le interazioni nelle “innovation zones” [Hambleton 2015], ovvero quelle zone di intersezione fra leadership politica, pubblica, manageriale, di comunità e del mondo economico, da cui nascono le risposte in termini di innovazione sociale e produzione della città inclusiva.
Perché è utile l’approccio delle pratiche anziché l’approccio per competenze?
L’approccio che definiamo di “pratiche” si affida all’intelligenza collaborativa dei soggetti che interagiscono facendo qualcosa assieme, per risolvere un problema comune e/o condividendo valori. Non è contrapposto all’avere competenze acquisite, naturalmente, ma si basa in primo luogo sulla capacità di agire, di riflettere e di collaborare apprendendo man mano. Le storie dei community manager che abbiamo raccolto (e che verranno raccontate nel prossimo articolo), descrivono modi diversi di agire, adattati ai contesti e alle comunità di riferimento e appresi tra lavoro diretto sul campo e momenti di riflessione/formazione. Le loro competenze pregresse non sono state date per scontate: sono state usate, riviste, discusse, modificate. È a partire da questo che abbiamo formulato alcuni assunti utili:
- Il CM si trova ad agire in situazioni spesso complesse e non definite inizialmente (come costruire ed ingaggiare una comunità? Come progettare a partire da bisogni e aspirazioni da scoprire? Come coniugare imprenditorialità e valori sociali?). Gli è richiesto di lavorare per definire le questioni e di agire collaborativamente, partendo dalla costruzione stessa della comunità di riferimento e promuovendo la sua capacitazione. In questo senso, prima dell’abilità di decision-making, alla leadership di un CM è richiesta la capacità di sense-making [Weick 1997, 2008]: saper interpretare la situazione mentre si agisce, ri-guardando di volta in volta ai risultati (anche inattesi) che si producono per correggere eventualmente il tiro e stare in connessione con il contesto. Laddove il decision-making dà per scontati bisogni conosciuti, il sense-making lo precede come prospettiva utile per indagare ed esplorare nuovi bisogni, azioni possibili ed aspirazioni. La pratica del CM richiede più attenzione per l’apprendere che intenzione per decidere un progetto o un servizio: la decisione intenzionale si produce in collaborazione con la comunità, non “per conto di”. Spesso, come i CM intervistati hanno ammesso, essi si avvicinano a quella figura del leader che ammette di non sapere [Weick], e che per questo è più resiliente e aperto: una sorta di “learning leadership”.
- Al CM non è richiesto tanto di progettare ed eseguire, quanto di attivare la comunità e lavorare su progetti con potenziale “generativo”, a partire dalle risorse sociali dei territori. La dimensione della pratica precede e incorpora quella della competenza perché il cambiamento che si vuole produrre non è programmabile e pianificabile: è processuale, legato all’ecosistema e alle sue evoluzioni. La pratica insegna la capacità di accompagnare questi processi, più che quella di dirigerli [Minervini 2016].
- La collaborazione richiede una sorta di “perizia” artigianale, pratica [Sennett 2012], più che una competenza predisposta. Chi collabora cerca di cavarsela con quel che ha a disposizione per risolvere un problema, congiungendo risorse e conoscenze e confidando nelle capacità distribuite e nell’esperienza di più soggetti. Non conosce procedure, ma procede per conoscenze e accordi spesso taciti. L’osservazione del lavoro dei CM porta a capire l’utilità di possedere un metodo per co-progettare e un set di strumenti a disposizione per poter agire opportunamente, in base alla situazione, usando l’intelligenza del contesto (come ogni buon artigiano sa fare). Il caso che riportiamo ci insegna che non ci sono prassi da seguire, ma lavori sul campo da praticare, diversi perché sono diversi i contesti (comunità locali, ecosistemi): gli strumenti vengono scelti e attivati di volta in volta e adattati, sapendo che lo scopo è la collaborazione e la progettazione a partire dai bisogni.
- I CM sono dotati di leadership in quanto hanno come scopo scoprire direzioni ed essere attivatori (non sono solamente “facilitatori”). In questo senso mettono in campo diverse modalità di leadership che rispondono alle caratteristiche personali e a quanto queste sono state “educate”, oltre che al progetto e al contesto in cui sono coinvolti. Le modalità possono essere graduali e vanno dall’agire più come un coach locale (ossia colui che come un ponte crea connessioni, occasioni di collaborazione, ingaggia altre comunità, lascia autonomia alla comunità e alle organizzazioni facilitando i processi decisionali e crea setting per collaborare), all’agire più come un leader di comunità, inteso come chi attiva una comunità locale o parte di essa perché ha capacità di visione, capacità progettuali, realizzative e di gestione di relazioni complesse.
Il passaggio principale del cambio di approccio da competenze a pratiche richiede un passaggio dalla figura del “leader” alla “leadership”, e un passaggio da “competenze personali” (Skill) sulle quali molto spesso chi lavora sul community management si interroga, a “capacità progettuali ed interattive”, dettate dal comprendere il contesto, imparare e usare strumenti e azioni “opportuni” non necessariamente pre-determinati.
Breve bibliografia di riferimento
Battilana e Dorado (2010), BUILDING SUSTAINABLE HYBRID ORGANIZATIONS: THE CASE OF COMMERCIAL MICROFINANCE ORGANIZATIONS, The Academy of Management Journal, Vol. 53, No. 6
Hambleton R. (2015), Leading the inclusive city. Place-based innovation for a bounded planet, Policy Press University of Bristol.
Minervini G. (2016), La politica generativa. Pratiche di comunità nel laboratorio Puglia, Carocci Editore, Roma.
Pache e Santos (2011), Inside the Hybrid Organization: An Organizational Level View of Responses to Conflicting Institutional Demands, Research Center ESSEC Working Paper 1101.
Sennett R. (2012), Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano.
Venturi, Puccio (2018). La sfida organizzativa delle imprese a impatto sociale, Harvard Business Review, Giugno 2018
Weick K. E. (2009), Leadership as the legitimation of doubt, in Weick K. E. Making sense of the organization. Volume 2, John Wiley & Sons, UK.
Weick K. E. (1997), Senso e significato nell’organizzazione. Alla ricerca delle ambiguità e delle contraddizioni nei processi organizzativi, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Wildavsky A. (2008), Moses as political leader, Shalem Press, Jerusalem and New York.
Zandonai F., 2017, Il Dilemma del retrobottega https://uidu.org/stories/8572-open-innovation-il-dilemma-del-retrobottega
A cura di: Nico Cattapan, Francesca Battistoni, Paolo Venturi
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