Come abbiamo già scritto in un precedente articolo dedicato all’innovazione trasformativa dei sistemi, le istituzioni e le organizzazioni sono oggi poste di fronte alla richiesta di pensare e produrre cambiamenti che non rientrano più nell’ordinaria attività di programmare o progettare per aggiustamenti all’interno dei sistemi dati e non funzionanti, ma di spingersi a rivedere i sistemi stessi nei fattori che li determinano.
L’urgenza cui siamo di fronte è: come trasformare quei sistemi che hanno determinato (e sono stati determinati da) il quadro delle nostre politiche, dei modelli di business, delle produzioni e scambi, delle forme di consumo e delle pratiche sociali, e che non risultano più essere sostenibili per effetti di disuguaglianze crescenti, esclusione e per consumo eccessivo di risorse non rinnovabili?
Dalle questioni geopolitiche, alle catene di valore globali e locali a matrice neoliberista ed estrattive, dai consumi energetici e di materie prime fino alle vulnerabilità e fragilità sociali e alla tenuta dei territori rispetto all’urbanità pervasiva, la questione di chi programma e di chi progetta politiche, interventi, tecnologie, filiere e servizi o azioni locali non sta più nel rispondere a nuovi bisogni di parti della società attraverso modelli innovativi – che hanno spesso costituito innovazioni buone, ma perimetrate e non reiconcorporate nei sistemi – bensì nell’andare alla radice dei bisogni della società per capire i problemi sistemici di cause ed effetti interconnessi che li hanno prodotti. L’innovazione trasformativa presuppone dunque di agire in profondità e su larga scala, anche quando la ricaduta è sui sistemi locali e territoriali. In questo senso, trasformare i sistemi implica:
- allargare lo sguardo dai bisogni cosiddetti “sociali”, ristretti ad alcuni target più fragili, ai problemi strutturali della società. Il tema delle disuguaglianze di opportunità per i giovani, ad esempio, se affrontato dal punto di vista sistemico, non si tradurrà in soli programmi o progetti di politiche attive del lavoro o formazione, o detassazione fiscale per le imprese che li assumono, ma andrà ad interrogarsi sulle condizioni che le producono, rispetto – ad esempio – alla classe sociale di provenienza e alla sperequazione nell’accesso ai migliori percorsi di istruzione che garantiscono impiego, alla impossibilità di investimento nel futuro che colpisce chi non dispone di patrimoni familiari ereditabili, alla differenza di prospettiva e capacità di aspirare di chi nasce in alcuni contesti territoriali marginali, etc. (cfr. Piketty Barca, Milanovic, Sandel);
- trattare tali problemi e non (solo) i bisogni (che sono loro effetti) come questioni di policy prima che di progettualità specifiche, poiché spetta alla dimensione delle politiche inquadrare ciò che costituisce un problema pubblico e definirlo in modo paradigmatico.
Questi due passaggi strategici alzano il tiro della sfida per le istituzioni, pubbliche e private, dei nostri ordinamenti o dei corpi intermedi, e per le organizzazioni che producono (imprese sociali, mondo cooperativo, associazionismo, ma altrettanto mondo delle imprese for profit), immettendole in quadro di interconnessione per costruire soluzioni realmente ambiziose indirizzate a incidere sui problemi dei sistemi socio-tecnici e non solo sui loro parziali effetti.
Questo livello di trattazione porta con sé la complessità: cause interconnesse (a volte ingarbugliate e sedimentate storicamente) di più fattori, molteplici attori coinvolti e non sempre coordinati, grado alto di incertezza e imprevedibilità, riferimento al lungo periodo e capacità di passare dal problem-solving mirato dell’approccio progettuale, al problem-setting e al reframing per incidere sulle cause dei problemi e sui fattori che li producono.
Se questo è l’approccio per una innovazione trasformativa, qual è il metodo da seguire? Come possiamo passare da un’attenzione all’innovazione sperimentale per progetti ad una capace di guardare ai sistemi e gestire l’incertezza e la complessità che questo lavoro implica?
Concretamente, si tratta di capire come lavorare sui problemi e come adottare soluzioni complesse tramite diversi interventi correlati e pensati su direzionalità che affrontano i cambiamenti dei fattori.
Il design di portfolio risponde a questo approccio, e mette in discussione le prassi progettuali consolidate su tre fronti:
- rispetto al limite del perimetro interno delle organizzazioni (o reti ristrette) dove si governa un progetto;
- rispetto al limite del breve-medio periodo su cui le progettualità vengono solitamente compresse;
- rispetto all’orizzonte ristretto del problem-solving su singoli bisogni targettizzati, su cui l’innovazione sociale era pur improntata.
La riflessione che proponiamo, assieme al metodo del portfolio, è frutto dell’apprendimento sul campo nell’accompagnare organizzazioni imprenditoriali, pubbliche amministrazione e corpi intermedi a intraprendere percorsi complessi di trasformazione.
Cos’è un portfolio e come si costruisce
Possiamo definire il design di un PORTFOLIO come la costruzione intenzionale di un quadro di sistema dove più progettualità, modelli, azioni ed interventi agiti da diversi attori e operatori (inclusi quelli non strutturati) vengono articolati, coordinati e interconnessi sulla base di strategie e direzionalità volte ad affrontare le cause e i nodi problematici dei sistemi, e non solo i loro effetti parziali.
Un portfolio non è quindi un insieme di progetti messi in rete per sommatoria: ben di più, esso è un insieme di “opzioni interconnesse”, speculare alla interconnessione dei fattori che causano i problemi. Possiamo raffigurarlo come un reticolo di progetti, programmi, risorse, competenze che da soli non produrrebbero il cambiamento di un sistema, ma che correlati tra loro lo “aggrediscono” da diverse angolature, consapevoli che è l’effetto combinato e complessivo dei loro interventi a contare sulle trasformazioni. Non solo: il portfolio è anche il banco di prova di analisi dei problemi, perché è proprio la pluralità di interventi che facilita l’evidenza delle sfaccettature dei problemi sistemici, man mano che ci si lavora per trasformarli.
Il portfolio è quindi un’opzione aperta, una sorta di work in progress, dove il carattere sperimentale non è tanto quello delle buone pratiche “eccezionali” cui si riferiva l’innovazione sociale con ambizione di scalabilità spesso difficile da implementare su territori che hanno loro specificità, quanto l’apertura alle revisioni su un campo ambizioso che affronta problemi diversi e che mira alle radici dei sistemi – e in questo è radicale.
Per costruire un portfolio vanno attenzionati cinque passaggi:
- la ricostruzione condivisa dei frame e dei fattori causa dei problemi del sistema;
- il passaggio da una strategia settoriale alla strategia cross-settoriale per ambiti connessi alla trasformazione;
- la presa in carico di tutti gli elementi funzionali di un sistema socio-tecnico da trasformare;
- la tenuta delle interconnessioni e le modalità con cui progettarle;
- la progettazione della struttura abilitante che consente il coordinamento e l’implementazione di un portfolio.
1_La ricostruzione condivisa dei frame e fattori causa dei problemi del sistema
Una volta definito il sistema di riferimento su cui intervenire (una definizione-guida, che potrà evolvere durante il processo di design, ad esempio il sistema dell’abitare per i territori delle aree interne, la rigenerazione territoriale, il rapporto tra giovani e lavoro, etc.), si procede con l’identificazione dei bisogni di target in prima battuta, a cui segue il lavoro sistemico sulla ricostruzione dei problemi strutturali e dei fattori che stanno alla loro base come cause. I megatrend globali servono come orizzonte entro cui stimolare la ricerca dei problemi e delle ricadute tra fattori di origine sovraordinata, cosa che serve a capire come declinare e perimetrare la ricerca dei problemi su un sistema perimetrato entro cui agire – ad esempio la scala territoriale locale – che pur tuttavia rimane dipendente da fattori di più ampia portata.
A questa fase va dedicata una particolare attenzione perché ciò che conta nell’analisi sistemica è il presupposto che ciascun problema interagisce con altri problemi, e solo in questa rete complessiva si spiegano gli effetti di feedback che portano al bisogno di ristrutturare il sistema e non solo una sua parte. Ciò è particolarmente evidente per quei sistemi che presentano strutture e problemi complessi o addirittura “wicked”, cioè talmente complessi da far risultare quasi impossibile identificare una soluzione precisa e organizzabile (come è il caso del cambiamento climatico, ad esempio). Disaggregare i problemi e affrontarli singolarmente non è quindi una via percorribile per le trasformazioni; lo stesso possiamo dire dell’uso delle tassonomie e tipologie, che, per quanto utili, rischiano di non focalizzare sulle interconnessioni. L’efficacia dell’analisi dei problemi sta anche nella possibilità di evidenziare i frame (pensati o incorporati nell’azione) con cui i diversi attori inquadrano i problemi stessi, e che spesso risultano di ostacolo all’identificazione delle cause o alla costruzione di azioni congiunte – come può essere l’identificazione del tema dell’abitare al frame dell’abitazione, un modo per ridurre e semplificare un sistema oggi estremamente complesso. L’identificazione dei frame costituisce inoltre un primo passo per congiungere la parte esplorativa con la parte progettuale, perché spinge a riflettere su quali visioni, valori e paradigmi dover operare cambiamenti o raccordi, nonché apre la strada alla costruzione delle direzioni per ambiti – una sorta di agenda setting direzionale.
2_Il passaggio dalla strategia settoriale alla strategia cross-settoriale per ambiti connessi alla trasformazione
Come intento, la cross-settorialità stava e sta nell’indirizzo di molte politiche o programmazioni integrate europee ed italiane (dai contratti di quartiere alla strategia per le aree interne, ai certe modalità delle missioni del PNRR, etc.), che hanno cercato fin dai decenni scorsi di affrontare lo storico problema dell’inefficienza e inefficacia delle pianificazioni e programmazioni di settore. Il presupposto – corretto – era che i problemi di complessi non rispettano logiche divisionali, su cui invece sia le istituzioni che le organizzazioni sono strutturate per funzioni e per cultura. Il parziale fallimento o inefficacia di alcune politiche integrate si può far tuttavia risalire al fatto di aver operato per sommatoria settoriale (a volte attoriale, per esigenza di rappresentanza), e per progettualità su bisogni, anziché su trasformazioni di fattori causali dei problemi alla radice. La matrice di questo approccio consolidato è riferibile ad un frame di cultura organizzativo-burocratica e spesso di saperi esperti segmentati: il soggetto progettuale è un’organizzazione (o un’istituzione, strutturata in modo settoriale) che dispone del potere di determinare il proprio progetto e del perimetro di controllo dello stesso (criterio della competenza in materia). Ciò che sta fuori da tale perimetro – perché è di competenza altrui – non viene governato come processo e quindi non viene preso in considerazione nella fase di pianificazione. Serve ora, rispetto a questo, un salto di mindset. Per definire la strategie di risoluzione dei problemi di sistema su una sfida specifica è necessario operare per ambiti strategici, di contro alla logica settoriale:
L’ambito connesso al sistema da trasformare aiuta a guardare ad un’area tematica di problemi, non ai settori organizzativi o di saperi esperti che vi si riferiscono, e mantiene aperta la complessità degli interventi su cui operare. Nel design di portfolio, è attraverso questo passaggio che si possono identificare quindi le direzioni di cambiamento che vogliamo ottenere in ciascun ambito tematico. L’esempio riportato sul sistema dell’abitare nelle aree interne evidenza gli ambiti chiamati in causa quando non ragioniamo per settore (abitazione, casa), ma apriamo all’abitare come sistema complesso, diversificato per contesto e target di problemi. L’abitazione come infrastruttura fisica (edifici abitabili, la qualità energetica ed ambientale, etc.) è solo uno dei tasselli del sistema; ma oggi l’abitare e le sue fragilità sono connesse anche alla vivibilità dei luoghi (l’abitare nelle aree interne differenzia la pratica dell’abitare rispetto all’ambiente urbano), alle forme di vita (la conciliazione vita-lavoro, ad esempio), al sistema di raggiungibilità dei servizi (istruzione, salute, consumo) o di flussi per il lavoro (trasporti, reti digitali, etc.), alle diverse forme di regolazione e norme (dai finanziamenti sui mutui, ai servizi di transizione abitativa per l’emergenza, all’accesso all’edilizia sociale, etc.), nonché alle forme di investimento in proprietà o in affitto (verso cui si stanno reindirizzando le scelte dei consumatori) e, non da ultimo, ai significati e alle culture che fanno preferire forme più socializzanti o meno socializzanti di abitare. Una volta ricomposta questa mappa sistemica di ambiti connessi tra di loro, per ciascun ambito va individuata la direzione di cambiamento e sviluppo rispetto al contesto di riferimento, coinvolgendo diversi settori e attori che ne hanno competenze e risorse: come può essere un intervento di rigenerazione di quartiere o di riconnessione con servizi lontani, oppure ancora di strutture che facilitano l’accesso ad affitti calmierati (agenzie per la casa).
3_La presa in carico di tutti gli elementi funzionali di un sistema socio-tecnico da trasformare
Congiuntamente alla individuazione degli ambiti implicati dalla sfida di trasformazione, nella costruzione di un portfolio ci dobbiamo interrogare anche su quali sono gli elementi funzionali del sistema socio-tecnico su cui vogliamo incidere. Non si tratta quindi solamente di riferirsi a servizi, infrastrutture fisiche o sociali, o interventi: un sistema socio-tecnico si spiega anche attraverso sistemi di regolazione che lo sostanziano, modalità di finanziamento, tecnologie a supporto, di pratiche sociali, nonché frame culturali che sorreggono le scelte strategiche o le pratiche dei consumatori.
Come evidenziato sopra, incidere sulle trasformazioni di un sistema come l’abitare, implicherà convogliare soluzioni tecnologiche e tecniche (ad esempio sulla riqualificazione energetica degli edifici), sistemi di regolazione (affitti, sfratti, etc.), infrastrutture sociali connesse a quelle fisiche (ad esempio nelle comunità di alloggi per anziani quasi autosufficienti, dove conta non solo lo spazio abitativo ma anche le relazioni di vicinato) e sistemi di governance che consentono al sistema di rimanere in equilibrio o di essere trasformato in modo sostenibile e fattibile.
4_La tenuta delle interconnessioni e le modalità con cui progettarle
Come anticipato, il fattore dirimente di un portfolio è la capacità di disegnare intenzionalmente le interconnessioni tra progetti, interventi ed azioni rispetto agli effetti sistemici di feedback che si andranno a creare e che costituiranno l’innesco di come il sistema verrà trasformato. È qui che sostanzialmente si supera la logica progettuale e programmatoria basata sulla sommatoria e candidatura di interverventi non connessi.
Il portfolio richiede proprio un avanzamento di cultura istituzionale e organizzativa, poiché si regge sulla capacità di produrre effetti complessivi dati dal coordinamento, dalla combinazione e dall’osservazione degli effetti sistemici – ovvero sulla capacità di disegnare le articolazioni tra progetti, non solo i singoli progetti. Ciò che si va a costruire, dunque, è un assemblaggio (cfr. Latour) che ricostruisce un meccanismo complessivo. Per tornare all’esempio dell’abitare, dovremo capire che l’efficacia del cambiamento del sistema di regolazione sugli affitti non produrrà effetti di cambiamento se a questo non si connette un adeguato cambio nelle pratiche sociali rispetto all’acquisto della casa come forma di investimento; né l’intervento di riqualificazione del patrimonio di edilizia pubblica in un’area periferica potrà dare risposta alla domanda di alloggi, se non vi saranno connessi opportuni interventi di rigenerazione urbana e di mobilità locale per le persone che si dovranno spostare per lavoro o per accedere a servizi. Non solo: il tipo stesso di trasporto o di servizi andrà disegnato in base ai reali problemi dei target che oggi non accedono facilmente alla casa – forse persone vulnerabili che hanno comunque una certa capacità di spesa indirizzata non opportunamente (capacitazione delle persone).
Le strategie di interconnessione sistemica da progettare possono essere di diverso tipo e riprendono lo schema dei feedback sistemici, ovvero il rinforzo o il bilanciamento. Il disegno di un portfolio si muove attorno a tre assi:
- La mappatura delle azioni, progetti, interventi esistenti, da coordinare e connettere con progettualità nuove ad indirizzo su ambiti.
- Le strategie sulle tenute e condizioni di sostenibilità (di contesto, di politiche, attoriali e organizzative, finanziarie). L’interconnessione del portfolio genera anche una riflessione sul “budget di portfolio” (o budget di missione), che può dipendere da un singolo programma-missione che finanzia diversi progetti, oppure essere la risultante di una orchestrazione di risorse legate ai singoli progetti, non visibili se non attraverso un lavoro collegiale su una sfida trasformativa tra più attori.
- Il cambiamento di come intendere la valutazione di impatto, che deve ora tararsi sugli effetti tra progetti del portfolio e non solo sui singoli progetti. In questo senso, la valutazione per un portfolio diventa rilevante solo se verrà intesa come apprendimento in itinere e redesign continuo degli aggiustamenti, poiché è il processo stesso di interazione che disvelerà anche effetti non previsti da attenzionare, sia positivi che problematici. Il portfolio è quindi un dispositivo di scoperta ulteriore di problemi e funziona per adattabilità continua, non per rigidità programmatoria.
5_La progettazione della struttura abilitante che consente il coordinamento e l’implementazione di un portfolio
I sistemi abilitanti che promuovono, sostengono e valutano le sfide trasformativa e i portfolio sono cruciali per il loro reale funzionamento. Tendiamo a risolvere generalmente questo passaggio come una questione di governance e di alleanze, ma questo non pare essere più sufficiente. Il sistema che abilita – che rende letteralmente possibile – tanto il disegno quanto l’implementazione di un portfolio richiede una capacità di tenuta ampia, articolata e in grado di gestire la visione sui bisogni di sistema rispetto alle visioni parziali, l’urgenza delle trasformazioni e i coordinamenti complessi, che non necessariamente passano attraverso cabine di regia stabili o alleanze strutturate. Si tratta di capire, quindi, chi ha il potere di leadership come regista, ma anche come “connettore”, capace di osservare e indirizzare (o reindirizzare, in itinere, su valutazione) le progettualità del portfolio al fine di produrre trasformazioni di sistema. Se un sistema è complesso per definizione, tale sarà anche la compagine degli attori che concorrono a produrlo. Non sempre saranno collaboranti (si produrranno conflitti di interessi o valori, o veti, o competizioni), non sempre saranno disposti ad allearsi (le alleanze sono spesso ancora settoriali o per logiche di appartenenza e similarità), non sempre saranno capaci di collaborare su stessi fini, e non sempre saranno convinti dell’utilità di dover cambiare parti di sistema o adottare certe direzioni (per abitudini consolidate e incapacità di reframing, o per convenienza ad agire sul breve periodo e su progetti consolidati). Tale ruolo è riferito ad un livello istituzionale, non necessariamente solo pubblico, capace di andare oltre il perimetro di interessi ristretti e del funzionalismo della razionalità di scopo delle singole organizzazioni. Si esplica attraverso produzioni che sono o che hanno a che fare con la produzione di politiche di fatto, mediante strumenti quali pianificazioni, programmazioni, progetti quadro o accordi di rete che ragionano per missioni ampie e connessioni di progetti di diverse compagini attoriali.
Il coordinamento quindi deve essere abile e far propri diversi dispositivi (politici e di policy making), che funzionano più come una zona di minima convergenza per un pluriverso attoriale, con diversi punti di vista, orchestrati da chi viene legittimato a guidare il processo. Si tratta allora di capire l’intricato rapporto tra attori che possono incentivare il trasformativo, forme diverse di governance, reti più o meno formali e rapporti istituzionali, strumenti quali bandi, programmi e tipologie di finanziamenti, attivazioni dal basso congiunte con azioni istituzionali, gestione di conflitti e negoziazioni su interessi e posizioni. Su questo punto, il ruolo delle “buone istituzioni” e di nuovi processi istituenti sempre più necessari, come già scritto nell’articolo precedente, ha e avrà un peso decisivo.
Bibliografia
Barca F., Luongo P. Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale, 2020, il Mulino, Bologna,
Donolo C., L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, 1997
Esposito R, Vitam instituere, 2021, IL MULINO
Latour B, Reassembling the social. An introduction to Actor-Network Theory, Oxford, OUP, 2005
Mazzuccato, M, Missione economia – Una guida per cambiare il capitalismo, Bari-Roma, Laterza, 2021
Milanovic B., Global inequality: A New Approach for the Age of Globalization, 2016, Harvard University Press.
Piketty, T. Una breve storia dell’uguaglianza, La nave di Teseo, Milano 2021, Piketti uguaglianza
Sandel, La tirannia del merito: Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, 2021, trad.Eleonora Marchiafava, Corrado Del Bò, Editore Feltrinelli Editore,
UNDP, Strategic Innovation https://medium.com/@undp.innovation/building-capacity-for-strategic-innovation-an-emerging-competency-framework-for-portfolio-work-fadb768242be
A cura di: Francesca Battistoni, Nico Cattapan, Giulia Sateriale
Pubblicato su: cheFare