Come anticipato nel precedente articolo Chi sono le nuove figure professionali che fanno il welfare di comunità anche in questo secondo intervento ripercorriamo alcuni aspetti delle nuove professioni che stanno evolvendo nel mondo dell’innovazione sociale e dei progetti di comunità. Si tratta di figure che sempre più fanno da perno ad uno sviluppo del welfare verso un lavoro più complesso e articolato per saper leggere e rispondere a quei nuovi bisogni di fragilità e vulnerabilità che le società stanno esprimendo con urgenza. Le riflessioni che presentiamo in questo, come nel precedente articolo, muovono da una indagine svolta su alcuni progetti del programma Welfare In Azione (WiA) di Fondazione Cariplo, i cui esiti completi si possono trovare nella ricerca Le nuove figure professionali nel welfare di comunità. Saperi e pratiche del community management.
Attraverso interviste e raccolta di storie ed opinioni dei diretti protagonisti, sono emersi i tratti di figure professionali diversificate, accomunate dal lavoro con le diverse comunità (di beneficiari, di abitanti, ma anche di attori locali, dalle associazioni agli enti pubblici, fino alle organizzazioni for profit) che sempre più intervengono non solo e non tanto ad esprimere bisogni, ma altresì a concorrere alle loro soluzioni. Local coach, Lab maker, Care planner, Welfare community manager, etc., sono figure nate nei progetti di rete di WiA, presenti attivamente in un costante lavoro di lettura dei bisogni, di costruzione di rete di attivazione, oltre che di sostegno e mantenimento della partecipazione e collaborazione.
Nel primo articolo abbiamo restituito le pratiche di chi opera direttamente con i beneficiari dei progetti di comunità. In questo secondo intervento completiamo il quadro delle nuove professioni introducendo la figura dei coordinatori dei progetti di comunità – essi stessi invitati a cambiare modalità operative e pratiche di lavoro rispetto a quelle più programmatorie e direttive dei servizi strutturati. Verranno presentate inoltre le condizioni che rendono possibile, a livello organizzativo, questo lavoro e alcune conclusioni sulle sfide che le nuove professioni del welfare di comunità pongono alle stesse organizzazioni e reti di appartenenza, nonché agli attori che lo promuovono.
Per ripercorrere in sintesi i tratti specifici già visti delle figure di operatori di comunità, loro scopo è trovare soluzioni con – e non solo “per” – le comunità, andando oltre le risposte codificate dei servizi per essere più inclusive rispetto ai bisogni dei beneficiari e ai loro progetti di vita. A definire il compito di queste figure sono dunque la capacità di saper gestire processi aperti, sperimentali e innovativi con risposte da creare ad hoc, la capacità di apportare correzioni in corso d’opera, la ricombinazione di asset esistenti, la co-costruzione di soluzioni indirizzate alla capacitazione e attivazione dei soggetti. In sintesi: gli operatori di comunità lavorano per creare un valore attraverso la comunità stessa e le reti dei territori. È un lavoro le cui sfide stanno nella capacità di trovare il punto di equilibrio nelle pratiche svolte in collaborazione, impostando l’operatività in modo diverso da procedure prestabilite, ruoli fissi o forme gestionali gerarchiche o divisionali. Rispetto ai servizi strutturati di welfare (il cosiddetto “primo welfare”), cambiano dunque così, oltre alle competenze richieste, anche gli oggetti di lavoro e le modalità operative, la strutturazione delle reti e gli strumenti, i rapporti all’interno e tra le organizzazioni.
Le forme e figure di coordinamento
Questo cambio di competenze e pratiche degli operatori incide spesso anche sulle figure dei coordinatori, i quali sono chiamati a ristrutturare le forme classiche del coordinamento per facilitare e rendere possibile le attività di community management degli operatori. Si tratta di figure implicate tanto nel coordinamento di équipe operative, quanto nella gestione di reti di diversi attori in qualità di responsabili di progetto, svolgendo un ruolo di ponte tra la governance di progetto e gli operatori sul campo. In certo senso, anche i coordinatori adottano modalità di community management, declinandolo nello scopo per la loro specifica figura: lavorare per co-produrre, diffondere, sostenere e rivedere la visione progettuale da sperimentare concretamente, calandola in azioni concrete di lavoro di gruppo e/o di lavoro di rete.
In sostanza, ciò che un coordinatore fa, in un progetto di comunità, non è dare obiettivi rispetto cui richiedere l’esecuzione, ma fornire motivazioni, scopi e direzioni attorno cui coalizzare i gruppi di lavoro, collaborando con loro nel trovare le soluzioni puntuali. In certo senso, i coordinatori sono degli “abilitatori”, in quanto creano le condizioni abilitanti per consentire le pratiche del lavoro di comunità.
E nel fare ciò, trasformano il modo di essere leader, usando una leadership non più verticale (comando), ma appunto “capacitante”, che può avere un risvolto di supporto o più direttivo di spinta, ma sempre fungendo da “connettori” tra diverse parti coinvolte nel progetto.
Dato che nel welfare di comunità i confini tra ideazione, progettazione e programmazione tendono ad essere meno fissi e più sfumati, lo spazio di manovra dei coordinatori non sta solo dentro alla propria organizzazione, ma anche nel rapporto collaborativo tra organizzazioni che co-partecipano alla realizzazione del progetto. I coordinatori che adottano questo stile sono spesso più attenti alla riflessione e agli apprendimenti di gruppo agendo come coach, che non alle direttive non mediate, più inclini a evidenziare e gestire conflitti, che a stabilire ruoli e confini, e più attenti a conciliare direzionalità (di cui c’è comunque bisogno, ad esempio rispetto a pratiche amministrative, risoluzioni in emergenza, etc.) con capacitazione degli operatori (necessaria per mantenere il senso di contatto con le comunità).
Qualche esempio di figure di coordinamento potrà chiarire queste funzioni e stili. Ne scegliamo tre, proprio per evidenziare come il coordinamento possa assumere forme assai diversificate, in base ai contesti e in base allo scopo dell’intero progetto.
● Community maker di Fare Legami (progetto che nella provincia di Cremona attiva forme di mutualità reciproca tra cittadini per sostenere famiglie e persone vulnerabili): connette su diversi livelli le varie azioni, con uno sguardo complessivo sul progetto. Si occupa della manutenzione di reti territoriali e distrettuali, coordina le attività dei civic center, luoghi di aggregazione della domanda e di rete tra soggetti diversi.
Il mio lavoro (di community maker, ndr) è stato quello di ascoltare e partecipare, di fare coinvolgimento della comunità o agenda di coordinamento con presenza nei diversi momenti di giorno, sera o fine settimana, ascolto ai tavoli locali , rimando, e connessione con la governance di progetto su tenuta e finalità del progetto stesso, alternato tra lavoro sul campo e rimando di quello accadeva, con sguardo più “filosofico”: vero supporto tra coordinamento con lettura dei diversi piani di realtà (…) noi connettevamo trasversalmente tutti i tavoli. Noi eravamo presenti nei momenti di azione, di incontro, di progettazione, di relazione con le figure apicali e di responsabilità. (Progetto Fare Legami)
● Coordinatore di progetto di WEMI (progetto finalizzato ad abbattere le barriere di accesso al welfare e a ricomporre risorse e competenze della città di Milano, attraverso una piattaforma e spazi dislocati): Si occupa di creare un rapporto di collaborazione e coordinamento tra gli spazi WEMI. Supporta il team degli operatori WEMI verificando la fattibilità dei singoli progetti messi in campo e facilitando la gestione dei conflitti anche esercitando un ruolo di leadership progettuale. Facilita la nuova relazione tra pubblico e privato sociale nella ricomposizione delle risorse e nella costruzione di un’interfaccia unitaria di accesso all’offerta del sistema dei servizi domiciliari su scala cittadina.
Il mio ruolo (di coordinatore di progetto, ndr.) con gli spazi di WEMI è di creazione di fiducia e collaborazione, perché il patto WEMI è vincolato a questi aspetti. (…) Ho sentito la necessità di giocare molto sui contenuti, non dandoli per scontati: cosa vogliamo portare avanti, come, con quale metodologia. (…) Il mio ruolo è quello di far fare anche un reale pensiero sulla capacità di reggere, facendo fare le cose che sono sostenibili realmente, non cose che poi non riusciamo ad affrontare e a reggere. (Progetto WEMI)
La duplicazione dei ruoli Network Manager e Care Planner è stata una sfida voluta, proprio perché l’idea era quella di far astrarre le persone dalla struttura di appartenenza e dai loro incarichi istituzionali. Con quel ruolo dovevano sentirsi La cura di casa e non il loro ente. Infatti nel primo anno di erogazione dei servizi ci siamo resi conto che alcuni Network Manager avevano consumato solo il budget della propria struttura, mentre era importante tenere presente il budget di tutti i soggetti per integrare i servizi e usare tutte le risorse disponibili, incluso il volontariato. (Progetto La cura è di casa)
Una figura più trasversale e maieutica rispetto alla rete di soggetti, un’altra attenta a ricostruire il ruolo tradizionale del coordinatore di progetto e una terza a metà tra l’operatività dell’assistente sociale e la direzionalità del gestore di servizio, spiegano le molteplici sfaccettature che il lavoro di coordinamento può assumere quando si cala nel welfare di comunità. La loro abilità è stare connessi allo scopo da perseguire, cercando di riconnettere le proceduralità dei servizi, le diverse visioni degli attori di rete e l’operatività dei gruppi di lavoro.
Le criticità e le capacità delle organizzazioni di essere pronte a cambiare per sostenere il lavoro di comunità.
L’interrogativo che a questo punto si pone all’evidenza è come queste figure – operatori e coordinatori, ciascuno a suo modo, possano trovare modo di praticare una professione di comunità, ovvero quali ne siano le condizioni. L’innovatività di queste figure pone infatti, tanto alle organizzazioni quanto alle persone che intraprendono la professione, una serie di criticità da affrontare. Ci si deve preparare, insomma, a rendere sostenibili tali professioni tanto a livello personale e di profilo quanto a livello strutturale e quindi organizzativo.
Partendo dalle ricadute personali e quotidiane, il lavoro di comunità è impegnativo sotto diversi profili: orari non fissi, confini e responsabilità non facilmente tracciabili rispetto ai ruoli di provenienza, problemi che emergono e che non sono facilmente inquadrabili in casi affrontati in precedenza, nuove competenze da acquisire, imprevedibilità maggiori rispetto alle routine di lavori per ruolo sono i principali temi che vengono sollevati. Tutto ciò pone sia un tema di “adattabilità” personale (non tutte le persone sono adatte a ricoprire questi profili) ma altresì di questioni pragmatiche quali le tipologie di contratto di lavoro, la spendibilità futura sul mercato, la formazione continua e le forme di coaching e mentoring di cui abbisognano, la gestione di conflitti interni ed esterni. Tutti temi aperti, di cui si cercano aggiustamenti attraverso errori e apprendendo man mano il modo migliore di gestione.
Evocativo è quanto emerso dall’intervista al coordinatore di progetto di Genera_azioni (progetto che nella bassa bresciana ha affrontato situazioni di vulnerabilità che hanno colpito famiglie e adolescenti):
All’inizio le organizzazioni avevano individuato e selezionato i facilitatori tra i migliori, tra quelle figure professionali di cui ti fidi nella tua organizzazione, che hanno magari già coordinato servizi e lavorano da parecchi anni, e sono una garanzia (e questo anche col rischio di mettere in difficoltà la gestione ordinaria della cooperativa). Tutte le cooperative hanno ragionato così. Non hanno tenuto conto che queste persone erano abituate a stare in servizi strutturati e si sono trovati improvvisamente per buona parte del loro orario a stare in un servizio destrutturato (…). Avevano costruito una professionalità eccellente ma con orari fissi, luogo fisso e soprattutto utenza fissa, e con un mandato preciso, anche rispetto alla collaborazione con la parte pubblica, dove erano abituati a procedure e confini precisi (dove opero io e dove opera l’assistente sociale), e questo è improvvisamente crollato. E alcuni hanno detto di non potercela fare, con crisi e discussioni, le organizzazioni difendevano gli operatori dando un po’ di colpa al progetto.
La sostenibilità di queste figure dipende poi da una serie di condizioni organizzative. In primo luogo, le organizzazioni e le reti che si apprestano a progetti di comunità devono considerare le difficoltà che si producono quando si cercano risposte ai bisogni che possono uscire dagli schemi prestabiliti dai servizi. Come dare risposta al bisogno di una persona con disabilità che costruisce da sé il suo proprio progetto di vita autonoma? Come rispondere ai progetti che emergono dai laboratori, e che impattano su budget da gestire, fattibilità e attivazioni non sempre facili da realizzare? Come coinvolgere una persona vulnerabile rispetto ai criteri di presa in carico dei servizi sociali? Anche qui, non ci sono soluzioni prestabilite, ma conta l’abilità di costruire risposte superando gli ostacoli che vi sono quando si confrontano i mondi dell’amministrazione e della burocrazia con il lavoro di comunità, o le difficoltà nella collaborazione tra soggetti del terzo settore, o di ingaggio dei beneficiari non sempre preparati ad attivarsi.
All’inizio l’hanno vissuto (gli assistenti sociali che facevano i network manager) come lavoro in più da fare, poi hanno visto che i punti di comunità e i laboratori davano risposte ai problemi dei servizi sociali anche senza volerlo. (Progetto Genera_azioni)
In secondo luogo, come conciliare il lavoro di rete tra soggetti con mandati di lavoro e culture organizzative diverse? Il community management escogita soluzioni a problemi e non rispetta sempre i confini dei mindset organizzativi: stare nello spazio tra settore pubblico e privato sociale, tra profit e non profit, includere i beneficiari e la loro voce direttamente nella costruzione progettuale, sono sfide continuamente aperte che propongono frizioni e a volte conflitti che solo una struttura consolidata di progetto, con coordinamenti e gruppi di lavoro capaci di collaborare, può permettere di superare. Avere una visione condivisa, basare il lavoro su strategie di impatto a lungo termine e costruire forme di lavoro dove viene premiata l’autonomia attraverso il coordinamento e l’apprendimento reciproco sono tutti dispositivi che si sono rivelati utili a far fronte a queste problematiche.
L’altra sfida è stata dentro il nostro servizio, ragionare tra di noi su elementi non propri della nostra organizzazione pubblica. E cioè: sono dipendente del servizio pubblico, ma dentro un progetto con risorse diversificate, il mandato me lo danno loro ma passa attraverso qualcuno cui io devo rispondere – quindi gioco di equilibri per trovare il peso giusto gestendo un ruolo in un certo posto, ma rispondendone sia qua che là, un po’ arlecchino servitore di tanti padroni che deve imparare a saltellare tra là e qua– poi non l’abbiamo vissuta come una tragedia, eh, ma qualche volta con fatica. (Progetto La cura è di casa)
Da ultimo, le condizioni di sostenibilità e di fattibilità dei lavori di comunità, si legano al tipo di organizzazione che a monte li promuove.
Se le nuove professioni sono figure dotate di – e basate su – una “learning leadership” (ovvero di una capacità di gestire processi imparando sul campo e progressivamente), anche le organizzazioni si devono apprestare a diventare “learning organizations”, capaci cioè di apprendere e innovarsi, incorporando quanto queste figure di comunità sanno apportare in termini di strategie di sviluppo.
Ciò implica fondamentalmente essere organizzazioni non gerarchiche e compartimentali, ma che progettano a partire dai bisogni e dagli impatti da raggiungere. Significa anche essere organizzazioni in grado di avere strutture e competenze più flessibili, aperte, collaborative all’interno, con le altre organizzazioni e con il territorio, consapevoli che i confini tra il dentro e il fuori, quando si fa innovazione, tendono ad oscillare e a dover essere permeabili ed osmotici. Tutte le figure che abbiamo incontrato hanno saputo nel tempo sviluppare queste caratteristiche e le hanno proposte alle loro organizzazioni di appartenenza.
Tre punti su cui lavorare per il futuro
La fase conclusiva di questa ricerca sulle nuove figure del welfare di comunità ha coinciso con il periodo della pandemia e con le conseguenze che sono ormai condivise a livello pubblico. Ciò ha sollecitato ancor più la riflessione su quanto avere figure capaci di leggere e rispondere ad hoc ai bisogni, attivare i vari attori, sapendo imparare, reagire velocemente ai cambiamenti ed essere flessibili (da soli e in team) siano abilità utili, se non addirittura indispensabili, per affrontare le emergenze – e questo va detto anche rispetto alla Pubblica Amministrazione, dove il cambiamento verso un nuovo modo di lavorare sembra essere più difficoltoso a volte per la difficile gestione della struttura. Un apprendimento che possiamo trarre dal periodo pandemico è quanto sia importante riprogrammare dispositivi di governance capaci di ricomporre le tante dimensioni del welfare dei territori, tanto dei servizi quanto delle professioni che li rendono possibili.
Sono tre i punti che forse vanno sottoposti all’attenzione per consentire in futuro – o meglio: nel presente – la continuità e la diffusione di queste pratiche professionali:
- Avere progetti di comunità che ambiscano a radicarsi al livello alto delle politiche pubbliche: se il welfare oggi non è più un “settore”, ma sempre più un campo trasversale di azione di più competenze, allora avere una cornice di politiche che programmano e gestiscono questa complessità diventa un passo fondamentale. È a questo livello, e non solo a livello organizzativo o di “buona volontà” dell’operatore che si può ambire a fare del welfare di comunità un modo nuovo di pensare alla società.
- Promuovere una formazione adeguata: queste figure professionali non sono formabili in soli percorsi classici, ma abbisognano di sperimentare, confrontarsi, approfondire e rielaborare continuamente, nel corso della loro carriera, il lavoro di comunità (che non ha saperi fissi, ma più campi interdisciplinari da associare e costruire). L’approccio alle pratiche ha bisogno in tal senso anche delle condizioni concrete per potersi sviluppare, come le risorse economiche e di tempo necessarie a formarsi e a riflettere.
- Costruire nuovi modelli organizzativi a partire dai territori: come detto sopra, per promuovere le figure di comunità e le loro pratiche, le organizzazioni hanno bisogno di cambiare cultura organizzativa. Ma è nella dimensione territoriale che si può radicare sempre più questo tipo di esperimento, in quella dimensione dove i rapporti tra attori, organizzazioni, bisogni e risorse possono trovare una dimensione di innovazione non standardizzata, ma basata sulla capacità di attivazione delle comunità.
L’epoca di incertezza che stiamo vivendo con la pandemia, afferma ancora di più la necessità di mettere in campo non solo e non tanto competenze codificate e ruoli prestabiliti ma anche capacità di improvvisare e di apprendere da ciò che si sta facendo, costringendoci a mettere in dubbio consuetudini e strutture prestabilite. Queste qualità emergono fortemente dalle esperienze narrate dai tanti operatori intervistati ma anche da quelli, e sono tanti, che non hanno trovato uno spazio specifico all’interno di questa ricerca. A tutti va il nostro ringraziamento per aver dimostrato che lavorare al di fuori di perimetri prestabiliti è una sfida possibile e oggi più che mai indispensabile.
A cura di: Michele Asta, Francesca Battistoni, Nico Cattapan