L’Action Plan della Commissione Europea per l’Economia Sociale (APSE) ha acceso i riflettori su un “oggetto” che, pur non essendo nuovo, assume oggi un’importanza strategica nel dibattito sullo sviluppo futuro. La questione cruciale è come intendere l’economia sociale: in un senso restrittivo, come un comparto specifico di attori con precise caratteristiche, o in un’accezione aspirazionale, come un vero e proprio nuovo modo di produrre un effetto sistemico capace di rimodellare il capitalismo contemporaneo nella sua forma neoliberista degli ultimi quarant’anni. Questo articolo si propone di esplorare queste due visioni, argomentando a favore di un approccio trasformativo che elevi l’economia sociale da semplice “aggiustamento” a motore di cambiamento.
Definire l’economia sociale: interpretazioni a confronto
Le definizioni e il futuro indirizzo dell’economia sociale come motore di nuovo sviluppo si muovono su più interpretazioni possibili, non necessariamente separate, ma che spesso generano fraintendimenti. Ci sembra utile a riguardo evitare di perimetrarla con precisione definitoria, per darle invece una prospettiva di scopo ampio ed evolutivo, attraverso tre significati che circolano e che possono influenzare in modo diverso le politiche che la riguardano.
Il primo significato identifica l’economia sociale tout court con il Terzo settore. Questa visione restrittiva vede l’economia sociale come un attore collettivo che interviene per rispondere ai “bisogni sociali” rimasti indietro, fungendo da correttore ai fallimenti del mercato o dello Stato, e coprendo servizi che mancano in alcuni territori lasciati indietro. Tale interpretazione non solo è limitante, ma anche poco utile a distinguere il portato dell’economia sociale dall’innovazione sociale, un concetto che specifica il senso di un’innovazione, più che un sistema economico che può conseguire. L’APSE stesso supera questa ristrettezza, ampliando i soggetti dell’economia sociale a cinque attori diretti: le cooperative (non solo quelle sociali), le società di mutuo soccorso, le fondazioni, le imprese sociali e le associazioni.
Un secondo significato discute l’economia sociale come l’attività di queste organizzazioni, pur diverse tra loro. Questa interpretazione tende a privilegiare una lettura di categoria: sono le organizzazioni che hanno come scopo la mancanza di lucro e il reinvestimento degli utili a produrre economia sociale in senso specifico. Se da un lato questa definizione supera un certo settorialismo al sociale ampliandone gli oggetti a diversi campi di intervento (l’agricoltura, il turismo, l’economia circolare, i servizi, la rigenerazione dei luoghi, la salute e l’education, ecc.), dall’altro limita tuttavia lo scopo dell’economia sociale all’aggiustamento delle esternalità negative del mercato o dello Stato – questione che per altro non trova d’accordo nemmeno gli stessi soggetti delle organizzazioni senza scopo di lucro.
Il terzo significato, quello che si propone come l’orizzonte più ambizioso e, a nostro avviso, necessario, parte da un’indicazione di finalità. L’economia sociale è qui intesa come quell’insieme di attività economiche che perseguono l’interesse generale e collettivo, in ambiti che spaziano dalle costruzioni alla salute, dall’educazione al turismo, dall’agricoltura al lavoro. L’APSE, infatti, specifica che l’economia sociale riguarda diversi ambiti di interesse economici e inter-settoriali, tra cui: agriculture, forestry and fishing, construction, reuse and repair, waste management, wholesale and retail trade, energy and climate, information and communication, financial and insurance activities, real estate activities, professional, scientific and technical activities, education, human health and social work activities, arts, culture and media.
Al di là quindi della perimetrazione ad alcuni attori economici o sociali, va posta attenzione allo scopo dell’economia sociale quale indirizzo: un’economia il cui intento è rimodellare un sistema di sviluppo complessivo, anteponendo l’interesse delle persone e dell’ambiente come scopo delle attività produttive, di scambio e di consumo. In altre parole: se perimetriamo l’economia sociale a partire dai soggetti, rischiamo di fermarci a politiche incentivanti una sola parte dell’economia. Viceversa, se cogliamo l’invito all’interesse generale come scopo, la direzione verso cui lavorare sarà quella di rivedere i sistemi economici attuali che non rispondono più né alla sostenibilità per le persone – le disuguaglianze – né al consumo di risorse naturali. La sfida per l’economia sociale può allora essere inscritta in una transizione di macro-livello, quella verso un’economia ripensata per la società, dove le transizioni ambientale e digitale, nonché le economie per i nuovi bisogni e per la giustizia sociale, trovino un orizzonte di completamento e coerenza, di tenuta su condizioni di sistema.
Lo scopo di un nuovo modello di sviluppo centrato su economie non estrattive
Il ritorno ad un interesse generale e pubblico per l’economia sociale richiama una questione che sempre più è oggi al centro del dibattito pubblico e di settore, ovvero la non tenuta dei sistemi a matrice neoliberista del capitalismo. Come sostengono ad esempio Paul Collier[1] e Saskia Sassen[2], il modello capitalistico dei cosiddetti “trenta gloriosi” era stato capace, pur nel conflitto tra capitale / lavoro (e capitale / risorse naturali, allora meno dibattuto), di conservare una certa coesione sociale promettendo crescita e sicurezza. Era un capitalismo inclusivo, seppur più per necessità di mantenimento di un ordine sociale, che per virtù di equità. Ed era un capitalismo di impronta nazionale, cui ha fatto seguito un’apertura globale della circolazione di merci, persone e capitali. Il capitalismo attuale, nella declinazione dei vari neoliberismi, presenta delle evidenti fratture di quel patto sociale di tenuta, rispetto ad alcune fattualità:
- Processi di esclusione ed espulsione, invece che inclusione: il mercato deregolamentato, lasciato a sé stesso, tende a generare marginalità e vulnerabilità piuttosto che opportunità diffuse, tende inoltre ad essere causa di divari tra territori (ad esempio rispetto al costo del lavoro, ai sistemi di protezione, ecc.).
- Aumento delle rendite (anche da capitale) e dei profitti, ma calo dei salari e non reinvestimento nelle attività e nei territori: la logica della massimizzazione del profitto a breve termine porta a una distorsione della distribuzione del valore generato, con conseguenze sulla capacità d’acquisto e sul benessere della maggioranza.
- Aumento delle disuguaglianze sociali, salariali, di opportunità e territoriali: la divaricazione tra ricchi e poveri, tra chi ha accesso alle opportunità e chi ne è escluso, è un trend in costante aumento, anche nel nostro Paese.
- Conflitto tra capitale e risorse naturali: il modello di accumulazione accelerata e di crescita lineare è basato sull’estrazione e sullo scarto, ed ha portato il pianeta al limite, generando crisi ecologiche senza precedenti.
- Effetti secondi di polarizzazione sociale, sfiducia nelle istituzioni, individualismo e insicurezza, crisi dei sistemi democratici: le iniquità economiche e la pressione sulle risorse creano tensioni sociali che minano la coesione e la fiducia nelle fondamenta stesse della convivenza civile e della democrazia.
Questo modello di sviluppo sta ormai evidenziando la sua insostenibilità su diversi fronti. Il primo, quello della incapacità di rispondere agli shock sempre più ricorrenti e agli eventi imprevisti estremi, naturali, economici, finanziari. La pandemia del 2019, ad esempio, ha manifestato la non resilienza dei sistemi sanitari e di produzione del cibo in quanto dipendenti da catene di approvvigionamento lunghe e poco governabili. Il secondo, sul fronte dei costi: le disuguaglianze non sono solo una questione umanistica legata ai diritti, ma anche economica di efficienza; per il mancato impiego di lavoratori espulsi e conseguente diminuzione di produttività, per i costi sociali e pubblici di copertura delle esternalità, per la tenuta della coesione sociale che permette il funzionamento dei mercati. Infine, un costo di innovazione: la diminuzione del reinvestimento degli utili nelle imprese mina anche i bisogni dell’economia di dotarsi continuamente di nuovi asset tecnologici, strumenti, modelli e competenze, richiesti per altro dallo stesso sistema capitalistico per sopravvivere in nuove fasi.
Se questo è il punto in cui siamo, il richiamo all’interesse generale per un’economia dall’impronta sociale ci riporta ad affrontare complessivamente le condizioni per un’economia diversa, volta ad un nuovo modello di sviluppo. I fattori di crisi descritti, infatti, ci rimandano al bisogno di interventi congiunti, articolati, capaci di incidere complessivamente sui diversi soggetti, comparti e strutture dell’economia, non solo su interventi correttivi di settore o su incentivi per alcuni attori. Lo scopo allora non può che essere di ripensare ad un’economia incorporata nella società – per usare un’espressione di Karl Polanyi[3] – nel suo complesso, partendo dai soggetti che già la praticano per scopo organizzativo, ma favorendo la capacità di estendere scopi, modelli, pratiche e comportamenti economici anche agli altri attori attraverso una revisione dei sistemi e disseminazioni, collaborazioni, convergenze di scopo, a partire da campi di sperimentazione su cambiamenti radicali.
Un esempio per reindirizzare lo scopo viene da Rana Foroohar[4], che nel suo La globalizzazione è finita ci parla di come, per rendere sostenibile il lavoro e la società prossimi sia necessario ripensare l’assistenza sanitaria, di cura e per l’infanzia non come un costo, ma come un investimento, dando dignità a lavori che anche l’intelligenza artificiale non potrà sostituire perché hanno a che fare con l’attenzione e il rapporto empatico. Pensare all’assistenza come investimento economico per la società significa ripensare la dignità salariale di quelle professioni, significa considerare gli impatti sulla liberazione di forza lavoro (in maggior parte femminile) e il conseguente aumento della capacità produttiva, significa infine scegliere come intervenire, ad esempio prevenendo e così riducendo i costi pubblici della sanità. Questo è un esempio di economia sociale a cui riferirsi: partire da uno scopo (rivedere l’assistenza come investimento e settore economico, non come costo, superando anche un vecchio frame del welfare State), intervenire sui diversi settori e strumenti che riguardano il sistema assistenza (prevenzione, tecnologie e dati da reindirizzare al miglioramento di vita delle persone e dei flussi di lavoro, infrastrutture di prossimità e decentrate, ruolo del pubblico e del privato, ecc.) e, a partire da alcuni attori chiave nel settore come le imprese sociali, le fondazioni e associazioni, le mutue, costruire politiche ampie anche con altri attori (enti pubblici, attori privati, le assicurazioni, ecc.) capaci di re-indirizzare l’attuale sistema di welfare assistenziale verso nuovi scopi, capendone il valore economico e di resilienza complessiva per la tenuta economica di sviluppo. Se alcuni attori sono pronti all’innovazione sociale per scopo diretto, come le imprese sociali, l’effetto di economia sociale è una risultanza complessiva di sistema cui partecipano anche gli altri soggetti economici, finanziari e le istituzioni.
Tra i diversi riferimenti citabili, le teorie della post-crescita e la ristrutturazione delle filiere globali vanno prese come indicazioni per rivisitare il nostro modello di sviluppo. Alcuni fenomeni sono già in corso, come la ristrutturazione di catene di approvvigionamento a scala più decentrata, meno performative da un punto di vista di profitto sul breve termine ma capaci di rispondere meglio a criteri di resilienza e di stress a eventi estremi e crisi ricorrenti. L’agricoltura estensiva è un sistema che, ad esempio, richiede interventi necessari di ristrutturazione, con le relative ricadute che potranno avere nel sistema del food, della logistica, del lavoro di prossimità e di cura del territorio. Se da un lato non ha senso tornare alle dimensioni nazionali del capitalismo degli anni Cinquanta-Settanta, dall’altro vanno anche riconfigurati i portati negativi della globalizzazione, optando per economie non estrattive, capaci di essere robuste negli scopi e flessibili nelle azioni, inclusive e attente agli effetti esterni sulle risorse naturali, capaci di investire in innovazione utile per la società e attente ai divari territoriali e sociali.
Economisti come Anthony Atkinson[5], Joseph Stiglitz[6], Branko Milanović[7], Thomas Piketty[8], Paul Collier[9], Mariana Mazzucato e Michael Jacobs[10] hanno sottolineato l’attenzione a distinguere due modalità di intervento per cambiare i modelli di sviluppo. Gli interventi pre-redistributivi: azioni che modificano la distribuzione originaria dei redditi e delle opportunità, agendo a monte del processo economico (ad esempio politiche salariali, accesso all’istruzione di qualità, regolamentazione dei mercati, nuove catene di valore e modelli produttivi, distributivi e di consumo, innovazione dei modelli di business, ecc.). E gli interventi distributivi o redistributivi: misure che correggono ex post le disuguaglianze attraverso tassazione e sistemi di welfare.
Promuovere l’economia sociale vuol dire spingere il primo tipo di interventi, ovvero ripartire dagli scopi delle attività economiche, incidendo sui comportamenti degli attori economici per creare nuovi modelli di produzione, scambio, consumo e organizzazione. Gli interventi distributivi, matrici di una forma di welfare ancora necessaria ma non più sufficiente, potranno funzionare come incentivi verso il riequilibrio delle opportunità e delle condizioni, che a loro volta consentono un ulteriore miglioramento dei modelli economici di impresa, di mercato, di regolazione. Le buone performance delle imprese che operano nell’economia circolare e che adottano criteri di sostenibilità ambientale e sociale ne sono la prova: sono nuove economie che non sopravvivono solo con incentivi, ma che rispondono a nuove esigenze sociali di mercato pensate per risolvere a monte i problemi di disuguaglianza e di reintegrazione delle risorse naturali. In sostanza, non basta distribuire e avere buoni servizi in supplenza, serve ripensare come produciamo, cosa produciamo e il modo di farlo.
Per questo, alle prime due modalità, si aggiunge un terzo oggetto di lavoro per l’economia sociale: agire via politiche, indirizzando quello che è il fattore più sacrificato dal modello di sviluppo attuale, ovvero l’equità. Le politiche sono necessarie per allineare gli attori su indirizzi non estrattivi dell’economia, riequilibrare i conflitti (rispetto al lavoro e all’ambiente), agire sui sistemi e non solo settorialmente. Le politiche, insomma, costruiscono l’economia a impronta sociale in quanto possono riplasmare le regolamentazioni e le obbligazioni sociali delle governance formali e informali, e incidere progressivamente sulle razionalità di scopo degli attori economici, sociali e civili. Si è scritto “politiche” al plurale: servono infatti più strategie congiunte per approcciare un’economia sociale come modello di sviluppo.
Come agire gli scopi e coordinare i soggetti per una nuova economia ad impronta sociale
La traduzione di questa definizione di economia sociale, pur leggendo gli assunti presenti nell’ APSE, porta, come è facile intuire, ad ampliare una politica solo limitata al sistema di incentivi per un settore o per un gruppo di soggetti, pur non escludendone l’efficacia e il bisogno. Se si tratta di ripensare un modello di sviluppo, il punto di partenza deve essere come declinare il cambiamento dei sistemi e delle azioni dei diversi attori che vi concorrono, a partire da pratiche che attori specifici (quelli indicati come OES) possono diffondere, valorizzandole come nuove forme di economia generale, non settorializzata. Proviamo a definire i punti principali di un lavoro coerente in tale prospettiva:
Costruire politiche con l’approccio trasformativo ai sistemi socio-tecnici
Se vogliamo incorporare l’interesse generale nei sistemi economici, vanno ripensati gli attuali sistemi socio-tecnici dell’abitare, della mobilità, delle filiere resilienti del lavoro, dell’energia, della cura del territorio e dell’agricoltura, dell’assistenza, ecc. Trasformare, e non aggiustare i sistemi significa incidere sulle cause che condizionano il loro malfunzionamento. Favorire la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, ad esempio, significa spingere per una diversa redistribuzione degli utili e per un’attenzione maggiore al reinvestimento degli stessi nell’innovazione. Le mission-oriented policies sono un esempio con cui praticare le trasformazioni, dotandosi di una spinta pubblica su un ampio obiettivo di cambiamento, convogliando l’azione di diversi attori che operano in più settori connessi all’ambito del sistema da cambiare. A riprova che non bastano le politiche normative e incentivanti, ma servono nuovi frame per costruire politiche e azioni congiunte che incidano su modelli di business e catene del valore, sulle innovazioni, sui sistemi di finanza, sulle governance e sui comportamenti delle persone.
Riprogrammare uno sviluppo decentrato ma connesso su più scale
Il decentramento delle catene di approvvigionamento e del valore favorisce l’attenzione ai bisogni delle persone e del territorio, opta per una lotta ai divari territoriali e corregge quindi le politiche che hanno visto alcuni territori vincenti su altri. Le politiche place-based (come la strategia SNAI, tra le altre), sono un esempio di questa strategia con attenzione al locale per quanto riguarda le economie dei servizi, ma non possono essere esaustive come scala di intervento complessivo. Vanno certamente integrati e promossi i servizi economici di interesse generale per i luoghi, ma anche le economie fondamentali d’area, regionale o subregionale (l’abitare, infrastrutture e reti, il cibo, ecc.); vanno inoltre ristrutturati i sistemi di produzione manifatturiera e di servizi per creare nuovi ambiti distrettuali resilienti capaci di riversare valore nel territorio pur integrando relazioni estese a livello regionale o internazionale. Vanno, cioè, promosse le diverse economie intendendole come sistemi complessi e trans-scalari: dal locale al distretto di nuova generazione, dalla city-region agli ambiti internazionali. Un’economia sociale per l’abitare, ad esempio, può agire a livello locale con azioni differenziate tra città e aree interne, ma va strutturata a scale ampie considerando i settori delle costruzioni, i sistemi locali del lavoro, i finanziamenti europei e nazionali nella loro gestione regionale, le pianificazioni urbanistiche e le rendite fondiarie, ecc. Vanno attenzionate dunque le condizioni istituzionali per arrivare a questo scopo, rivedendo le relazioni tra le economie regionali, capaci complessivamente di produrre nuova crescita via benessere – non solo competitiva o corporativa –, e capaci di produrre nuovi beni pubblici a più scale, che hanno permesso lo sviluppo anche nel passato e che oggi sono minati.
Rivedere processi istituenti e nuove relazioni attoriali tra chi produce economie sociali per finalità organizzative e chi le può produrre in via indiretta
I soggetti dell’economia a impronta sociale devono prepararsi a nuovi processi istituenti, cioè a nuove interazioni formali e informali che escano da logiche di appartenenza e agiscano congiuntamente sul cambiamento dei sistemi socio-tecnici. Se, come detto, i soggetti dell’economia sociale in senso stretto sono già indirizzati a questo scopo (e vanno sostenuti), la loro azione, non connessa ad altri attori economici che si muovono sulla logica del profitto o che sono pubblici (il Pubblico investe e produce economie, nei servizi e nelle infrastrutture), rischia di essere solo correttiva delle distorsioni del mercato, non fondativa di nuovi sistemi di sviluppo. Sono le nuove interazioni basate sullo scopo (non sulla somiglianza) a poter produrre una svolta verso l’interesse generale e un nuovo patto tra società, ambiente ed economia.
In conclusione, possiamo ravvisare nuove strategie emergenti, assieme ai segnali di pericolo. Nel caso della Regione Emilia-Romagna, ad esempio, la convergenza di pubblico e privato è stata storicamente indirizzata ad una certa collaborazione sulle politiche industriali, così come la coesione sociale, rinforzata dal mondo della cooperazione, delle fondazioni e dell’associazionismo ha permesso di rafforzare le condizioni di sviluppo e di preparare certe capacità di resilienza. Vanno tuttavia integrati nuovi fattori e nuove azioni, per agire sul cambiamento di sistema e su nuove interazioni tra attori per produrre nuove economie sociali. Questo, se vogliamo interpretare l’ASPE e l’economia sociale come un orizzonte di cambiamento per adattarsi alle sfide attuali e non solo come un piano di settore.
Bibliografia:
[1] P. Collier, Il futuro del capitalismo. Fronteggiare le nuove ansie, Laterza, Roma-Bari 2023.
[2] S. Sassen, Espulsioni, il Mulino, Bologna 2018.
[3] K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 2010.
[4] R. Foroohar, La globalizzazione è finita. La via locale alla prosperità in un mondo post-globale, Fazi Editore, Roma 2025.
[5] A.B. Atkinson, Diseguaglianza. Che cosa si può fare?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015.
[6] J.E. Stiglitz, La strada per la libertà. L’economia e la società giusta, Einaudi, Torino 2024.
[7] B. Milanović, Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro, Laterza, Roma-Bari 2020.
[8] T. Piketty, Il socialismo del futuro, Baldini+Castoldi, Milano 2024.
[9] P. Collier, Il futuro del capitalismo. Fronteggiare le nuove ansie, Laterza, Roma-Bari 2023.
[10] M. Mazzucato e M. Jacobs, Ripensare il capitalismo, Laterza, Roma-Bari 2017.
A cura di: Francesca Battistoni, Nico Cattapan
Pubblicato su: Pandora Rivista